Lettera aperta al giornalista Guido Rampoldi

 

 

 

 

 

Gentilissimo signor Rampoldi,

ho avuto occasione di leggere ne la “Repubblica” del 31 maggio, il Suo articolo “La missione in Afghanistan e la scorciatoia pacifista”.

Che dire? “Cento teste, cento berretti…”, come , saggiamente, soleva ripetere mio padre tutte le volte in cui una stessa situazione veniva interpretata in vari modi, dal più favorevole e ottimistico al meno fecondo e pessimistico.

Da sempre, perciò, ho imparato a rispettare il pensiero divergente, a sforzarmi – e non sempre è stato, ed è, facilissimo! – di pormi dalla parte di chi sta dall’altra parte.

Ho imparato, insomma , a non sparare a zero, a trattenere l’impulsività che potrebbe portar fuori – magari trascinata per i capelli - la parte peggiore di me.

A riflettere quel tanto che basta per tentare un approccio, un dialogo, nella consapevolezza, maturata nel tempo, che il modo diverso di affacciarsi nel mondo, e di camminare, è condizionato, più spesso di quanto si pensi, dall’ambiente nel quali si è nati, si è vissuti, dalle relazioni stabilite, dalle letture fatte. 

E’ evidente che coloro che hanno avuto la fortuna di  muoversi, ad esempio, in una casa che trabocca di libri e nella quale si attribuisce un’importanza non secondaria al dialogo e alla ricchezza interiore, saranno più disponibili all’ascolto rispetto a coloro ai quali è stata insegnata, innanzi tutto, l’importanza dell’accumulo delle cose, del mattone e del soldo.

Ecco perché  oggi non risponderò con  l’insulto al Suo articolo, nonostante non condivida nulla di ciò che Lei ha scritto… insultando.

Testualmente Lei scrive : “Ne ammazza di più il bellicismo oppure quel pacifismo preoccupato unicamente dalla salvaguardia della propria virtù?”, e, di seguito, cita Emergency.

Vede , signor Rampoldi , essere pacifisti non è un punto di partenza, una scelta aprioristica, un dono del cielo.

Diventare pacifisti implica un viaggio nella storia dell’Uomo e del mondo. Viaggio fatto con gli occhi aperti e le orecchie tese… per essere capaci di vedere oltre i fatti raccontati dall’informazione “armata e/o dai potenti di turno.

Apparteniamo – ha ragione Lei – “alla schiera di coloro che inorridì davanti ai bombardamenti americani dell’Afghanistan”. E sa perché? Perché avendo la noiosa abitudine di saperne oltre quel tanto che basta, conoscevamo la storia di quella terra martoriata e preda delle voglie di tanti da sempre . Ed eravamo a conoscenza anche della rete di oleodotti che, diretta verso il Golfo Persico, sarebbe dovuta passare- con o senza permesso! – attraverso un Afghanistan americanizzato.

Essere pacifisti significa imparare a cercare e leggere le pagine – spesso mai scritte – dei vinti.

Significa  soffermarsi a riflettere – oggi più di ieri – sul perché sia nata dal pensiero dell’Uomo e sulle macerie e i disastri della seconda guerra mondiale( dove, a morire, furono soprattutto i civili) la “Dichiarazione universale dei diritti umani”.

Pagine straordinarie che dovrebbero  essere considerate da tutti, indipendentemente dalla fede religiosa - che potrebbe non esserci toccata in sorte-, una stregua di Vangelo.

Sono certa che Lei ha presente quei trenta straordinari articoli che sono lì a ricordarci, fra le altre cose, il valore “del diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona” (art.3),   lo “spirito di fratellanza” (art. 1), il fatto che nessun individuo possa “essere arbitrariamente arrestato, detenuto o esiliato” (art.9), il rifiuto “della schiavitù, della tortura, delle punizioni crudeli e degradanti” (art.5)…

 

La tortura… Chissà in quanti parti di questo nostro mondo disastrato, anche adesso, viene utilizzata dai dittatori e criminali di turno. Ma quando a utilizzare la tortura- vedi il caso di Guantalamo e dei fatti recenti , e noti!, accaduti in Iraq- sono coloro che si ergono quali portatori ed “esportatori” della democrazia, il fatto, dal punto di vista politico, sociale e morale, è ancora più esecrabile. Lascia sconvolti. Senza respiro. Sono un pugno in faccia alla speranza dei nostri giovani  in un mondo diverso, più giusto, più attento ai bisogni di tutti.

C’è poi un articolo, signor Rampoldi, che mi piace ricordare perché in tema col suo scritto. E’ l’articolo 25. Si legge : “Ogni individuo ha diritto a un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della propria famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, alle cure mediche…”.

Le cure mediche…

Non leggo, non c’è scritto “…esclusi i Taleban , i ladri, i delinquenti, i pedofili, quelli che non la pensano come noi e/o ostacolano i nostri progetti.”.

Non c’è scritto.

Le cose da dire, anche sulla guerra di Bosnia e sull’Afghanistan , che Lei cita, sarebbero tante. Ma una lettera non può diventare un libro.  Preferisco citarne alcuni, invece, scritti da Noam Chomsky e da Giulietto Chiesa : “Dopo l’11 settembre”, “America : il nuovo tiranno” e “La guerra infinita”. Troverà non la verità ma tanto materiale sul quale riflettere.

Ciò che , invece, mi preme dirle in questa mia lettera aperta che spero davvero  Le giunga per vie più o meno traverse, è che, se anche non avessi letto altro nella mia vita che la “Dichiarazione universale dei diritti umani”,a lettura finita, non sarei potuta diventare altro da quella che sono : una pacifista convinta , senza se e senza ma…proprio perché mi sta a cuore la sopravvivenza dell’uomo . Perché oggi il problema vero , cruciale, come ci ricordava anni addietro padre Ernesto Balducci, è questo.

Mi piace concludere con due belle pagine tratte dal libro “Pappagalli verdi” di Gino Strada. Sono due pezzi di vita che ci riportano – ma solo quando siamo capaci di ascoltare con la mente e col cuore- alla nostra umanità ; che ci fanno immaginare un futuro costruito, come amava ripetere Terzani , “su ciò che  unisce e non su ciò che ci divide”. Due pagine che ci pongono davanti ai nostri limiti e alle nostre miserie ma che, contemporaneamente, risvegliano e pongono le ali al pensiero e alla nostra voglia di dare e di fare .

Alla nostra voglia-diritto di sognare, e di contribuire a realizzare un mondo migliore per i nostri figli e per i figli degli altri, anche di chi non amiamo.

Un mondo “armato” solo di idee costruttive e di sentimenti positivi.

La pagina che segue è la risposta alla Sua considerazione : “I Taliban sono esseri umani, per carità. Ma aprire un centro sanitario che rimette in sesto i combattenti d’un regime spaventoso così da rimandarli al fronte, a noi non pare un grande affare per la pace e per l’umanità. Saremo cinici ma ci sembrano più umanitarie le bombe e le pallottole che hanno liberato le afgane e gli afgani dall’emirato del mullah Omar”.

Da “Pappagalli Verdi” pag. 57:

“ Spesso arrivano i dubbi o i rimorsi o un senso di impotenza. E spesso è difficile reggere il ruolo di chi è costretto a scegliere.

Mi è capitato anni fa , quando Margaret, la nostra capo-infermiera australiana a Kabul, mi prese sottobraccio. “Vieni, ci sono già un centinaio di feriti nel cortile, devi fare il triade.”.

C’erano molti combattenti, tra loro, una situazione atipica, e quei combattenti ci erano in qualche modo familiari. Avevano tenuto sotto tiro noi e il nostro ospedale per giorni, senza alcun rispetto  per gli altri feriti e per chi, come noi , era lì solo per prestare assistenza. Io provavo un misto di paura e di rabbia, sentivo il peso di aver lavorato per giorni in mezzo a colpi di mitra e di mortaio.

Neanche lì, davanti a un mujaheddin con un proiettile in pancia,sono riuscito a liberarmi dalla rabbia. Avevo la mente piena di emozioni e sentimenti, ma da nessuna parte c’era posto per la pietà , che invece dovrebbe essere sempre presente nella testa di un medico.

Era duro ammetterlo, ma di quei guerriglieri feriti, che ci avevano terrorizzato per giorni, non me ne importava assolutamente niente.

“Il triade è fatto , Margaret – le dissi dopo pochi minuti che ci spostavamo tra quella folla di persone stese per terra-. Prima i bambini e le donne!”.

“Cooosa?”

“Si, hai capito bene, prima i bambini e le donne. Se non ti va bene chiama qualcun altro a fare il triade.”. E tornai in sala operatoria senza neanche attendere una risposta.

Nei giorni successivi avrei ripensato a quella scelta, non basata sull’etica medica, né su un approccio razionale al problema.

E’ vero, lì dentro bambini e donne erano gli unici a non avere colpe, avevano solo subito la violenza altrui. Chi, invece , la guerra la fa, mi ero detto , chi spara per uccidere, deve pur metterlo in conto un proiettile in pancia.

E perché avrei dovuto dare la precedenza a chi mi stava sparando fino a mezz’ora prima?

Ci ho messo un po’ di tempo a trovare la forza di dire a me stesso  che quella in fondo, era solo una specie di vendetta, il trasformarsi di un medico in giudice spietato e inappellabile.

E mi sono spaventato.

Quella scelta non aveva nulla a che vedere con il mio mestiere. Mi sono dato delle attenuanti, ma alla fine il verdetto è rimasto lo stesso : come si chiamerebbe , da noi, complicità in omicidio plurimo e omissione di soccorso?”.

 

Credo non ci sia conclusione migliore, per questa mia lettera aperta, della pagina che segue. I commenti? Sarebbero superflui, ma questo episodio, raccontato sempre da Gino Strada, aggiunge  un pezzetto in più al mio essere pacifista.

La saluto.

 

“Quando i primi dodici feriti del Frud arrivano in ospedale con un convoglio della Croce rossa internazionale che li scorta dall’aeroporto, incominciano i problemi. Una parte di loro si rifiuta di stare nella stessa stanza con i nemici governativi. Si odiano, si sono sparati addosso fino al giorno prima. Ma non possiamo, né  vogliamo tenerli separati. Così resto in ospedale fino a tarda sera, a parlare on questo e con quello , a spiegare che lì dentro non ci può essere né guerra, né politica, che nessuno chiede loro di dimostrare amicizia ma solo rispetto per gli altri feriti. Non ottengo granché, mi ascoltano senza interesse, senza commenti.

La notte trascorre senza incidenti, ma il mattino dopo la tensione è ancora alta.  Ricoveriamo altri feriti, soldati, ribelli, e civili che si son trovati in mezzo.

Arriva anche Alì, e arriva anche uno dei capi della guerriglia, Merito. Ha entrambe le gambe spezzate da una raffica di mitra, dobbiamo operarlo subito.

Alì è tra i più intransigenti. E’ paralizzato nel letto e sbraita che vuole andarsene, che non può stare a un metro da chi, forse, gli ha sparato alle spalle. Mi siedo tra i due.

“Io non so niente di questa guerra., non è il mio paese, né la mia cultura. Ma credo che voi due abbiate già pagato abbastanza, l’uno paralizzato, l’altro senza una gamba. Non ci può essere guerra tra voi, non è più possibile, neanche fisicamente. Avete buoni motivi, tutti e due, per odiare la guerra. Non vi pare sia la guerra il vero nemico?”

“Siamo in tre, e sono l’unico che parla, anche se di sicuro sono quello che ha meno da dire.”.

“Alì ha una carrozzina nuova e sta imparando ad usarla. E’ ormai lì da tre giorni. Rientra nella sua stanza per essere aiutato a mettersi a letto per la visita del mattino. Nel letto accanto, con mia sorpresa, il “nemico” allunga la mano per spostare le stampelle e lasciare spazio alla carrozzina..

Forse ci siamo.

Forse il tempo scorre lento in questo piccolo afoso ospedale, e invita a pensare, a guardarsi intorno e dentro…”.

 

 

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